Giorgio Pellegrini

,Meter por los ojos... Adagiata sul freddo immoto di un marmo antico: polpa rossa, pulsante, come di carne viva, vermiglia, aperta alla luce che la irrora, la bagna e la dissangua, come fosse la pioggia del tempo che scorre ineluttabile. E penetra lenta in quello squarcio di vita, a frugarne i dettagli minuti, scoprirli alla vista, fissarli ed esporli al pensiero, alla riflessione sull’apparenza e sulla caducità delle cose. Un cocomero spaccato sopra un capitello: nel dipinto di Francesco Stile si svela preciso e sottile congegno barocco di meditazione sulla vita, il tempo, la morte. E vale subito a dichiarare autentica napoletanità: nel senso di inconfutabile appartenenza a una scuola pittorica che affonda le sue radici in un passato denso di storia, di gloria. Pompa, sensualità e tragico del Barocco. Esaltazione dell’apparente, dell’esteriore con rovello di realismo analitico, di superficie, capace però di esprime, mostrandolo intensamente, il significato profondo della realtà: la sua caducità. Tutto passa, tutto è mera apparenza. Solo guardando un frutto sino in fondo, frugandone il dettaglio, se ne arriva a scorgere la fine, la morte. Attualità del barocco e della sua grandezza mistica che trova, sempre e ancora, nella semplicità del quotidiano materia artistica capace di esprimere il trascendente. Sensualità esasperata e lucida che vede ogni trionfo della vita come inizio del suo processo di dissoluzione, che sente il mondo tutto come apparenza e trascorrere delle cose: come sogno, perchè altro non è che continuo apparire e svanire. L’eroismo del nostro pittore prolunga nell’era convulsa dei cellulari l’impeccabile sicurezza tecnica e insieme l’efficacia del metodo barocco: catturare la realtà, fermarla e descriverla senza tremare, analizzarla, per costringerla a offrirsi, perfetta, all’appetito dei sensi ma anche al bisturi della ragione. E trasformare infine l’illusione prepotente di quel frammento di verità visiva in un congegno filosofico e perchè no, mistico, di riflessione, di meditazione.  

Alessandra Redaelli

Di Alessandra Redaelli Qualche volta la troppa perizia tecnica può essere d’ostacolo a un artista. Qualche volta accade che l’abilità nell’usare il pennello spinga ad accontentarsi di una resa fotografica della realtà. Spaccati esattissimi del vero in cui però un gelo freddo, mortuario, invade l’atmosfera, privando il dipinto di un seppur minimo afflato di vita. Non è questo il caso di Francesco Stile. Il suo pennello è, sì, preciso come un bisturi nel delineare le crepe che incidono la pelle sottile e friabile della cipolla, così come le irregolarità nella buccia polposa di un’arancia. Ma quel pennello non si ferma mai lì. Come un bisturi, appunto, penetra la realtà regalandoci un terzo occhio capace di guardare dentro alle cose, di udirne il respiro segreto, siano esse agrumi spaccati di cui si potrebbe giurare di avvertire il profumo persistente, o anche bicchieri, sulle cui curve cristalline la luce gioca come dita su una tastiera, creando una sinfonia di riflessi. Nello sguardo di Francesco Stile, l’attenzione verso l’oggetto si rivela amore spasmodico per le cose. Quasi una forza superiore che spinge a dipingerle e a ridipingerle per fermarne l’esistenza in un perfetto istante eterno. E per ogni quadro, per ogni soggetto, Stile trova sempre il linguaggio più adatto. Quello verista, espressionista, che usa per dipingere i funghi sparpagliati sulla tavola, ancora umidi di terra e muschio, intrisi dell’odore selvaggio e pungente di sottobosco. Quello sussurrato, minimale, verrebbe da dire monastico, che dà vita a un cesto di uova composto e ordinato sotto una luce tenue. E poi quello carnale, erotico quasi, con cui dà la consistenza di una serica pelle femminile alla buccia liscia delle prugne mature, o che gli fa porre in mezzo a una cesta caravaggesca una melagrana spaccata, da cui fuoriescono semi lucenti di un rosso sanguigno. Lo sfondo ogni tanto riporta scorci di ambienti, una ricerca di contatto con la quotidianità. Ma il più delle volte il piano bianco della tavola incontra il grigio neutro dello sfondo – o addirittura un nero profondo e insondabile – su una nitida linea d’orizzonte che nulla ha a che fare con il quotidiano. In quello spazio irreale, allora, abbagliate da una luce potente che ne incide le forme, queste nature morte diventano icone metafisiche, archetipi di una bellezza fatta di perfette imperfezioni. E dalle ceneri dell’iper-reale nasce la poesia della realtà ultra-reale. 

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